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mercoledì 1 ottobre 2008

Che tu sia per me il coltello (III)

(terza parte)
Concludo lo spazio dedicato a Che tu sia per me il coltello di David Grossman. Dopo il primo post che presentava il libro e il secondo dedicato all'uomo Yair, è arrivato il momento di ascoltare le parole della protagonista femminile: Myriam.
Forse in quei tre giorni siamo stati in Galilea.
E abbiamo dormito in una pensioncina di Metulla. E abbiamo fatto l'amore per tutta la notte, senza parlare. Dicendo solo cose buffe. lo ti ho detto che mi fai venire i brividi alla schiena. E tu hai risposto, dài, diciamo brividiggini, come un brivido che apre un solco nelle lentiggini. E mi hai baciato in mezzo agli occhi. Poi ti ho massaggiato il corpo con le sole ciglia. E ho tracciato con il dito delle parole sulla tua fronte (scrivendole al contrario, perché tu possa leggerle dall'interno). All'inizio ci siamo toccati come se fossimo degli estranei. Poi ci siamo toccati come ci hanno insegnato a farlo. Solo alla fine abbiamo osato toccarci come facciamo noi due. E ho pensato che ora, quando sei con me, conosci alla perfezione il mio vocabolario più intimo. Ho pensato, radice della mia anima, radice della tua anima. Abbiamo provato un tale piacere... Nel cuore della notte mi hai sistemato il cuscino sotto la testa e io ho mormorato che non fa niente se non è proprio a posto...
***
21.30. Un tale disordine. Da dove cominciare? Il pavimento è coperto di fogli, giocattoli, pentole, forchette, cuscini, vestiti e sedie gettati alla rinfusa, e centinaia di tasselli di puzzle diversi. Chissà quanto tempo mi ci vorrà per vagliarli e sistemarli. Per tutto il pomeriggio abbiamo cercato di comporre il puzzle dell'orso Pooh che a due anni e mezzo era in grado di completare in pochi minuti. A quattro anni ci impiegava un' ora e mezzo, e oggi ci ha passato sopra tutto il pomeriggio. Alla fine si è spazientito e me ne sono accorta. Ancora un momento. Tra un secondo comincerò a riordinare. Ho bisogno di calmarmi con un po' di musica e scrivendo. Dimmi, quante volte al giorno provi una fitta di dolore pensando: non le scriverò mai questa cosa. Non conoscerà mai questo momento? Neanche del bambino che era prima della malattia ho quasi mai raccontato. Di questo non potevo davvero parlare. Con nessuno al mondo. Nemmeno con Amos. Del bambino felice che si è dissolto nel giro di poche settimane, pochi mesi. Come fosse veloce nell'apprendere, il suo senso dell'umorismo, il suo fascino. Era un bambino così loquace. Conosceva tantissime parole. E aveva un'intera biblioteca di libri adatti alla sua età. Ero solita leggergli una fiaba la mattina, una il pomeriggio e altre due o tre la sera (per questo, talvolta, ci volevano un paio d'ore per riuscire a metterlo a letto...), E le nostre chiacchierate... a cuore aperto, davvero. Un bambino di due anni con uno spirito così grande e illuminato. Da qualche parte abbiamo ancora una videocassetta del suo secondo compleanno. Non ho il coraggio di guardarla. Lo si vede ridere, ballare, recitare con noi la fiaba di "Succo di lampone". Tre mesi dopo si è manifestata la malattia, con tutti i suoi sintomi, e anche le parole hanno cominciato a svanire. Cancellate, una dopo l'altra. Vedevamo quello che accadeva e non potevamo far nulla. Né noi né i medici. Lui cercava le parole come uno che si fruga nelle tasche, sicuro di averci messo qualcosa, ma non riusciva a trovarle. È la prima volta che mi sento in grado di parlarne. Di ricordare da questa distanza senza sentirmi morire. Mi sedevo di fronte a lui e gli ripetevo le parole. La sera le ricordava ma il mattino erano sparite. Una volta, durante una crisi (mia), ho passato una notte intera a cancellare dai suoi libri, con un pennarello nero, tutte quelle parole maledette che lo avevano tradito. Ricordo che le poche rimaste mi apparvero come volti di gente che gridava angosciata dalle finestre, di notte. Quando poi tutte le parole furono cancellate, rimasero cinque o sei canzoncine. Furono le ultime a sparire. Alla fine ne restò una sola, quella del giacinto. Anche dentro di me si spense tutto e ogni albero, qualunque esso fosse, si chiamò solo: albero, e ogni fiore: fiore.
***
Un altro giorno. Non ci sei. Non smetto di guardare il cielo. Come sei riuscito a trasformare il mondo intero in un'enorme morsa che, a poco a poco, si stringe intorno a me? Basta, basta, basta! (Anche se, mentre lo dico, vorrei urlarti: parla Yair!) Cambiamento di visione. Guarda: sei un orologiaio losco e intrigante. Stai seduto nel tuo sgabuzzino soffocante e pieno di ticchettii. Sei tu. Un uomo in cui arde un istinto fortissimo e perverso. Fai girare incessantemente gli ingranaggi di alcuni orologi e li carichi in modo che squillino uno dopo l'altro, in base a un piano segreto che hai messo a punto: notte e giorno, estate e inverno, per tutto il tempo... È possibile ravvisare in te qualcosa di questo orologiaio, vero? La forza di volontà, l'arroganza con cui carichi i tuoi continui innamoramenti, così da essere sempre immerso in una musica (femminile?) che risuonerà e farà udire i suoi rintocchi intorno a te. Echeggerà per te. Perché non ci sia nemmeno un momento di quiete, di silenzio, in cui potrai percepire, Dio non voglia, il tempo che scorre. Questo è successo? Sono stata solo un accessorio in un culto privato? Forse cambi donna a ogni stagione, e questa è stata "l'estate di Myriam", a cui seguirà l'inverno di chissà chi... Forse misuri il tempo in donne, e io ero soltanto una lancetta che segna il trascorrere di un'altra ora... Forse la tua vera conversazione non si svolge con noi, povere e piccole figlie di Eva, bensì con Sua Maestà il tempo... Esci dalla mia vita.
***
Tra un secondo rientro. Vorrei solo poter restare qui tutta la notte e continuare a scrivere. Scrivere mi fa bene. Lo sento. Anche quando scrivo cose tristi, qualcosa in me si tranquillizza, sento di avere uno scopo. Voglio rimanere qui e raccontare le cose più semplici. Descrivere la foglia che è appena caduta. O la catasta di sedie in veranda. O le falene attratte dalla lampada. E raccontare ciò che avviene durante la notte finché il buio si tramuta in luce, fino ai cambiamenti di colore. Potrei rimanere qui seduta per giorni e notti a descrivere ogni stelo d'erba, ogni fiore, i sassi del muretto, le pigne. Solo dopo, quando mi sentirò pronta, passerò a scrivere di me. Del mio corpo, per esempio. Comincerò da lui, da ciò che è tangibile. Ma anche con lui partirò da lontano, dalle dita dei piedi, per avvicinarmi piano piano. Descriverò ogni sua parte, ne annoterò le sensazioni, quelle di un tempo e quelle attuali. I ricordi della caviglia, per esempio, o della guancia, o del collo. Perché no? Attraverso le carezze, i baci e le cicatrici. Mantenermi viva con la scrittura. Ci vorrà un sacco di tempo ma ne ho molto a mia disposizione. La vita è lunga e voglio raccontare di me stessa, raccontare quello che probabilmente nessuno mi racconterà mai. La mia storia. Senza aggiunte, ma anche senza detrazioni. Scrivere senza pretendere nulla. Da nessuno. Scrivere solo la mia voce. Un libro assolutamente da leggere...

2 : commenti:

Maria Chiara ha detto...

Domanda: il titolo di questo libro (per la quale comincio a nutrire un certo interesse)è per caso di ispirazione kafkiana?rammento questa frase...in una lettera a Milena."Amore è il fatto che tu sia per me il coltello con la quale frugo dentro me stesso..."
Ciao,bellissimo blog.

Daniele Passerini ha detto...

Risposta: assolutamente si!
I due protagonisti del libro citano le lettere a Milena di Kafka... e a parer mio Grossman ne ha fatto due personaggi kafkiani, soprattutto Yair.

Grazie del complimento al blog e benvenuta a te.

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